Aveva ancora le maniche corte perché il suo ultimo viaggio lo aveva condotto nella calda estate della California del 1960.
Era rimasto un mese in quel posto da sogno, spacciandosi per il figlio di un ricco petroliere, e scialacquando la fortuna che aveva accumulato in quegli anni.
Le donne di quel la regione erano molto disponibili con gli uomini danarosi come lui, e il fatto che avesse solo venticinque anni ed un volto perfetto come quello dei divi di Holliwood, le aiutava solo a farselo piacere di più.
Ma Dylan , dai capelli neri come la pece e mossi e le iridi chiarissime , sapeva che non sarebbe rimasto a lungo in quella zona, nemmeno quella volta.
Non sapeva perché i suoi sogni lo avessero portato fin lì, né come fare a sfuggire a quella maledizione che aveva ereditato da sua madre
Era condannato a vivere senza certezze, ad eccezione dell’unica e angosciante consapevolezza che, qualora si fosse addormentato, sarebbe finito inspiegabilmente in uno spazio-temporale completamente differente a quello dove aveva vissuto un attimo prima di chiudere gli occhi.
Così, se il luogo gli piaceva, faceva di tutto per non addormentarsi: la paura dell’oblio che avrebbe dovuto riaffrontare una volta sveglio lo terrorizzavano.
Ma qualunque rimedio provasse per ritardare il sonno, inevitabilmente alla fine le palpebre gli si appesantivano e un senso di torpore e di affaticamento vinceva ogni sua resistenza.
E quando riapriva gli occhi si ritrovava di nuovo solo…
[center]Primo Capitolo: Leningrado[/center]
San Pietroburgo, Inverno 1940
Milena Michailovna Petrova rimase di stucco quando un giovane di bell’aspetto bussò alla porta della casa dei suoi genitori, incurante della neve che gli cadeva sulle spalle coperte da una leggerissima polo a mezze maniche.
“Lena!” gridò sua madre strofinandosi le mani sul grembiuletto logoro, e chiamando la figlia affinchè l’aiutasse a preparare la cena.
“Mamà! Venite subito!” disse la ragazza con gli occhi sbarrati dallo stupore, facendo accorrere preoccupata Alexandra Nicholaevna alla porta.
Era il Gennaio dell’anno 1940 e la famiglia Jusurov non si aspettava certo di vedere uno straniero, che non fosse un soldato nemico, bussare alla sua porta chiedendole aiuto.
Il giovane venne fatto sedere di fronte al patriarca Michail Andreevic, che prese a squadrare l’inatteso ospite, senza smettere di boccheggiare la sua pipa nera e lucida.
In Russia il tempo scorreva lento durante l’inverno, scandito dalle colazioni abbondanti a base di the chai* servito con biscotti e pirojki*, dai pranzi veloci consumati in fretta per i lavori giornalieri da compiere, e dalle cene sostanziose con scì* e kasha*. Per cui ospiti inattesi come Dylan, avevano il potere di vivacizzare una giornata qualunque di soli gelo e lavoro.
“Molodye! (giovane)” disse il patriarca al forestiero, incoraggiandolo ad avvicinarsi al fuoco del camino per riscaldarsi.
“Sasha và a prendere uno dei miei maglioni , perché il ragazzo non muoia di freddo!” ordinò poi alla moglie, che svelta uscì dalla piccola stanza per fare ciò che le era stato detto.
“Diamine, giovanotto! Dove sono finiti i tuoi vestiti? Dov’è il tuo cappotto? Chi ti ha preso il colbacco?”lo riprese Michail.
Fortuna che Dylan, avvezzo a dover trarsi ogni volta d’impaccio da situazioni imbarazzanti come quella , aveva la risposta pronta sulla lingua:
“Scusate signore, ma ho venduto il cappotto e il colbacco per comprarmi del cibo”
“Si, si!” prese a dire Michail “Questo è un inverno difficile! Le provviste scarseggiano e Dima ancora non è tornato dal fronte!”disse il russo parlando tutto d’un fiato e nominando suo figlio, partito per la guerra mesi prima, e di cui non aveva avuto più notizie.
“ Lena canta al nostro ospite la Katiusha!” chiamò il capofamiglia la figlia minore, che stava nascosta in un cantuccio, ad osservare rapita il giovane.
Milena si avvicinò al forestiero curiosa: non aveva mai visto un uomo così bello in casa sua! Nemmeno suo cugino, che era biondo e col fisico da atleta olimpionico, possedeva dei lineamenti del viso tanto attraenti.
E così, mentre Alexàndra Nicholaevna metteva a bollire l’acqua per il the nel Samòvar*, Dylan, che ora indossava un maglione nero più largo di due taglie almeno, si mise in ascolto della canzone russa popolare più famosa di sempre.
La voce della ragazza era incantevole, si ritrovò a pensare il ragazzo che viaggiava nel tempo.
Chissà se anche lei, come Katiusha, aspettava che il suo amato tornasse dal fronte.
“Vero che è brava?” domandò Michail Andreevic applaudendo calorosamente la bravura della figlia, quando lei ebbe finito la canzone. “Lena è tutto il mio orgoglio!”
“Straniero, chi siete?” disse cambiando discorso all’improvviso.
“Mi chiamo Dylan Felton, e sono un giornalista inglese!”
“Inglese? Bravi gli inglesi!” commentò il russo grattandosi la barba lunga
“Non come i tedeschi! Gli inglesi li odiano!e anche noi li odiamo!”
Il sillogismo di Michail non faceva una piega: i russi odiano i tedeschi, gli inglesi odiano i tedeschi, i russi e gli inglesi sono amici, e Dylan è un amico.
“Sasha!” urlò tutto contento “A che punto è la zuppa? Il nostro ospite ha fame!” dichiarò, nonostante Dylan non avesse aperto bocca a riguardo.
La donna arrivò trafelata, porgendo al ragazzo inglese il thè nero e i pirojki, e ritornando in cucina per finire di preparare la cena.
“Il nostro thè è molto più forte di quello inglese, vero?” disse Michail vedendo il giovane bere a fatica il chai.
“Si, signore”
Milena andò ad apparecchiare la tavola, mettendo tanti piatti colorati e di forme diverse, come si usava fare nei giorni di festa, molto tempo prima.
La famiglia Jusurov non aveva mai sofferto la fame.
Michail Andreevic era un commerciante con una bottega tutta sua, per cui il cibo per i suoi cari non era mai mancato, neanche durante la rivoluzione.
Ma con lo scoppio della guerra le derrate alimentari avevano iniziato a scarseggiare persino in magazzino.
Michail Jusurov era un uomo mite che non avrebbe fatto del male nemmeno a una mosca. Non amava quindi la guerra, che gli aveva portato via l’adorato figlio, che ora lottava per la sua vita chissà dove.
Non condivideva neanche le idee comuniste, perché gli impedivano di pregare la sua adorata Matuska*, e lo obbligavano a vivere in un mondo senza Dio.
“Giovanotto! Prendete un po’ di vodka!” Prontamente il bicchiere di Dylan venne riempito di starka*.
“Na Zdorovie!(Prosit)” disse Michail Andreevic scolandosi alla calata il bicchiere.
Il viaggiatore nel tempo si trovò costretto ad imitarlo. “Na Zdorovie!” disse anch’egli.
Non era preparato al gusto forte ed acre che sentì, e si augurò di non aver offeso il padrone di casa mostrando una faccia schifata.
Alexandra e Milena sparecchiarono la tavola e portarono via le stoviglie sporche.
Quando tornarono in sala da pranzo trovarono il loro giovane ospite impegnato nell’ennesimo ad fundum di vodka.
Michail Andreevic, col volto reso paonazzo dall’alcool, aveva preso a dare pacche amichevoli a Dylan.
“Arrenditi ragazzo! Un inglese non può battere un russo! I russi sono abituati all’alcool, perché ce l’hanno nel sangue!”
“Hic!” fece Michail singhiozzando
Dylan aveva preso a ridere senza motivo delle parole dell’uomo, come se avesse detto la barzelletta più divertente del mondo.
“Io sono inglese, ma sono duro! Io resisto!” disse continuando a mandare giù l’ennesimo bicchiere di vodka.
“Fa caldo!” ammise Dylan all’improvviso.
“È solo l’effetto dell’alcool”disse solo il russo “Ma una bella dormita e passerà tutto!”
No, si disse mentalmente Dylan. Dormire avrebbe significato sparire di nuovo nel tempo, e lui non voleva andarsene così presto.
La notte era il momento peggiore della giornata, per il ragazzo.
Sdraiato nel letto, su cui fino a pochi mesi prima aveva dormito Dimitrij, il viaggiatore nel tempo passò il tempo scrivendo su quel diario dalla copertina nera sbiadita, che portava sempre con sé in ogni viaggio.
Dylan Felton era nato il 15 Ottobre del 1623. Quindi se ora si trovava nell’anno del Signore 1941 quanti anni avrebbe dovuto avere?318? No, lui ne aveva soltanto venticinque, perché, malgrado avesse viaggiato attraverso i secoli , erano pur sempre passati solo venticinque anni dal giorno della sua nascita.